2017 – Il progetto di vita:

Introduzione e analisi di contesto
Pietro Stefanini, Fondazione Trustee per la domiciliarità dei disabili – onlus

  • Inquadramento generale

“Non voglio più essere conosciuto per ciò che non ho ma per quello che sono: una persona come tante altre. Chiamatemi per nome, anch’io ho un volto, un sorriso, un pianto una gioia da condividere. Anch’io ho pensieri, fantasia voglia di volare. Chiamatemi per nome non più portatore di handicap, disabile, handicappato, cieco, sordo, cerebroleso, spastico, tetraplegico. Forse usate chiamare gli altri: “portatore di occhi castani” oppure “inabile a cantare” o ancora: “miope e presbite?” Per favore. Abbiate il coraggio della novità. Abbiate occhi nuovi per scoprire che, prima di tutto, io “sono”. Chiamatemi per nome”. (Gianni, papà di Benedetto, “Associazione sesto senso”, Siena). In questa breve poesia del papà di Benedetto sta il significato profondo di un cambiamento auspicato (e in parte avvenuto) nella evoluzione storica delle persone con disabilità.

Soffermiamoci, prima di tutto, a riflettere sul significato che, nella storia recente, ha assunto il temine disabilità e sulle motivazioni profonde che nel corso degli ultimi cinquant’anni hanno posto con sempre maggiore evidenza il tema dell’inclusione sociale quale paradigma fondamentale dell’azione professionale e delle politiche sociali. A partire, infatti, dagli anni ’70 del secolo scorso, si è avviato un profondo mutamento nelle prospettive del lavoro sociale con le persone con disabilità e con le loro famiglie. Fino ad allora, le persone con disabilità, più sovente chiamate handicappati, ma anche con sostantivi spregiativi, come deficienti, idioti, disgraziati, poveretti, minorati, scemi, mongoloidi, storpi, matti, incurabili, avevano di fronte due sole alternative: vivere nel chiuso delle loro case, affidati soprattutto alle cure materne, oppure venire istituzionalizzati in grandi centri assistenziali. Il processo di critica alle istituzioni totali, avviato in Italia nel corso degli anni ’60 in particolare come critica ai manicomi, ha riguardato anche i modelli di assistenza rivolti ai minori e agli ‘handicappati’. Per questi ultimi, i primi segnali di cambiamento avvengono in quegli anni, a partire dalla sperimentazione, in alcune scuole del nostro Paese, della presenza di ‘alunni handicappati’ fino ad allora scolarizzati solo in scuole speciali o differenziali.

Per molti decenni, dalla fine ‘800, l’assistenza anche a queste persone è stata affidata alle Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza (IPAB) nell’ambito degli interventi rivolti ai poveri in stato di malattia e invalidità. I valori dell’integrazione e dell’inclusione emergono come esigenza di sviluppo civile e sociale solo nella seconda metà del secolo scorso, sostenuti dalla Costituzione (1948) e da un progressivo cambiamento nella cultura e nella considerazione delle persone con disabilità. Questa evoluzione è figlia di un, seppur lento, mutamento nella considerazione della persona con problemi. Deficit e malattie producono situazioni di svantaggio (handicap) diseguali quando si manifestano in realtà sociali diverse (per reddito, istruzione, ma anche per i pregiudizi culturali, per l’organizzazione dei servizi e le condizioni ambientali). Quando si parla di handicap di una persona, quindi, non si può non considerarlo correlato alla presenza o meno di sistemi di prevenzione e di riabilitazione, sia medici che sociali ed educativi.

Nella seconda metà del secolo scorso, si è data molta rilevanza, a livello mondiale, al corretto riconoscimento della menomazione nei suoi segni e sintomi. La prima classificazione elaborata dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Salute), l’lnternational Classification Disease” (ICD, 1970) risponde all’esigenza di cogliere la causa delle patologie, fornendo per ogni sindrome e disturbo una descrizione delle principali caratteristiche cliniche ed indicazioni diagnostiche. L’ICD rivela limiti nella comprensione del fenomeno e induce l’OMS ad elaborare un nuovo strumento, “la Classificazione Internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap” (ICIDH, 1980), che introduce l’influenza che il contesto ambientale esercita sullo stato di salute, inteso come benessere fisico, mentale, relazionale e sociale che riguarda l’individuo, la sua globalità e l’interazione con l’ambiente. Elementi critici insiti in tale strumento hanno portato l’OMS ad una seconda elaborazione (ICI DH-2, 1999), che rappresenta una tappa evolutiva del modello concettuale che sarà sviluppato nell’ultima classificazione che l’OMS propone con “La Classificazione Internazionale del funzionamento, disabilità e salute (ICF, 2001). L’ICF[2] si delinea come una classificazione che vuole descrivere lo stato di salute delle persone in relazione ai loro ambiti esistenziali (sociale, familiare, lavorativo) al fine di cogliere le difficoltà che nel contesto socio-culturale di riferimento possono causare disabilità. Tale classificazione è profondamente innovativa, perché pone al centro la persona “sana” e non le limitazioni e i deficit che di fatto la ostacolano. In questa classificazione i fattori biomedici e patologici non sono gli unici presi in considerazione, ma si considera anche l’interazione sociale: l’approccio,   così, diventa multiprospettico: biologico, personale, sociale.

Sulla base di questo percorso, diventa evidente la funzione rilevante che possono assumere i genitori, gli educatori e gli insegnanti fin dall’età più tenera, il servizio sociale e gli operatori sanitari per sostenere la persona e il suo contesto a consentire un effettivo esercizio dei suoi diritti fondamentali e per dare realizzazione a quei principi ispiratori che ritengo fondamentali per ogni professione nella propria realtà operativa: uguaglianza, solidarietà, personalizzazione, lotta alla discriminazione, integrazione e inclusione sociale, rispetto e valorizzazione delle differenze, partecipazione. Operatori, professionisti che si incontrano con le persone, le famiglie e le loro associazioni non più considerandole “semplici destinatari” di interventi e prestazioni, volti a correggere i danni provocati dalla malattia o dal deficit, ma quali “soggetti protagonisti” attivi nella co-costruzione di un progetto di vita e nella partecipazione operativa alla realizzazione di una società inclusiva.

 

  • Ambiti istituzionali e normativa essenziale

La storia delle persone con disabilità è segnata, anche in periodi non troppo lontani da noi, da profonda sofferenza e processi di emarginazione. Le persone con disabilità, infatti, sono state le prime a sperimentare la follia del nazismo in quanto, ancor prima dell’esperienza dei Lager, vennero trasferite in ricoveri nei quali venivano condotte a morte, con motivazioni di eugenetica e di natura economica: la loro assistenza comportava un peso economico in un periodo in cui le risorse statali dovevano essere riservate ad altri scopi. La nostra   Costituzione introduce una nuova concezione di persona, nelle sue differenti esperienze e caratteristiche, apre ad una dimensione di umanità fino ad allora sconosciuta, introducendo valori profondamente innovativi: eguaglianza, solidarietà, diritto al lavoro, tutela delle persone invalide, tutela della salute, libero accesso alla scuola, diritto all’assistenza sociale, all’educazione e all’avviamento professionale (artt. 2,3, 34 e 38 della Costituzione) sono principi e sistemi di riferimento cui la successiva produzione normativa non potrà non fare riferimento, sia a livello nazionale che regionale, dagli anni ’70 in poi, con la costituzione delle Regioni a statuto ordinario.

Il nuovo Parlamento democratico, tuttavia, non sempre è riuscito a raccogliere la sfida dei principi costituzionali e darne attuazione. Ancora nell’istituzione della scuola media unica (rivoluzionaria di per sé e profondamente democratica) nel 1963, e della scuola materna, nel 1968, i ragazzi, i bambini e le bambine con disabilità non trovano collocazione e adeguati percorsi di inserimento; ad essi, vengono riservati luoghi dedicati e ‘speciali’ e continuano ad essere etichettati come diversi. E’ con la legge n°482 del 1968 e, ancor meglio, con la legge n°118 del 1971, che si dà inizio ad un percorso nuovo, volto all’integrazione attraverso l’inserimento scolastico,   lavorativo e professionale; le provvidenze economiche, l’assistenza sanitaria, l’eliminazione delle barriere architettoniche sia negli spazi pubblici che nelle abitazioni private (vedasi legge 13/89). La cultura del tempo tarda in ogni caso a cambiare. La logica prevalente è quella medica, così come il modello di riferimento, sostenuto anche dalle iniziative dell’OMS con l’emanazione dell’ICD, tutto centrato sulla classificazione della disabilità in ragione della patologia. Gli anni ’70 sono fecondi di profondi cambiamenti, sia nell’assetto politico amministrativo (basti pensare all’avvio delle Regioni a statuto ordinario), sia nella definizione di una nuova politica dei servizi sociali e sanitari (con il DPR 616/77) con il trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni previste all’art. 117 della Costituzione, si promuove la centralità del comune nella programmazione e gestione dei servizi. A partire dalla scuola. L’inserimento scolastico del bambino e del giovane con disabilità è stato caratterizzato, sino alla fine degli anni ’60, da un approccio prevalentemente medico, con una situazione di   diffusa emarginazione e istituzionalizzazione che lo separava dal contesto familiare e socio-ambientale. Da qui la creazione di scuole speciali o differenziali, finalizzate all’educazione solo degli alunni con handicap, al fine di correggere il ‘difetto’ conseguente alla minorazione, trascurando la personalità globale del bambino ed il suo bisogno di dialogo con i coetanei e con il suo ambiente sociale. Tuttavia, i tempi erano maturi per una vera e propria rivoluzione scolastica. In alcune scuole all’avanguardia si erano sperimentate classi integrate, in cui anche i bambini con disabilità trovavano accoglienza e formazione. E’ così che l’art. 28 della legge 118/71 apre loro le porte nella scuola per “tutti”: “L’istruzione dell’obbligo deve avvenire nelle classi normali della Scuola Pubblica, salvo i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi” in conformità agli artt. 34, 37 e 38 della Costituzione italiana. Stabilisce che i comuni debbono mettere in atto il trasporto scolastico e la eliminazione delle barriere architettoniche per garantire l’accessibilità degli edifici scolastici, delle aule, dei servizi igienici. Solo con la legge 517/77, viene reso effettivo il principio dell’integrazione scolastica dei bambini disabili attraverso l’eliminazione delle classi “differenziali”. Istituisce formalmente le classi aperte, indicate come modalità organizzativa flessibile per l’integrazione degli alunni handicappati “… al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la promozione della piena formazione della personalità degli alunni la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche integrative organizzate per gruppi di alunni della classe oppure di classi diverse anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni” (art. 2 legge 517/77). Di grande interesse ed attualità, è il documento, elaborato dalla Commissione presieduta dalla Senatrice Franca Falcucci (da cui prende il nome il documento), che costituisce la magna charta dell’integrazione scolastica nel nostro paese; in essa sono contenuti i principi ispiratori delle leggi 517/77 e 104/92. Si riporta solo un breve spaccato di quel documento, per fare cogliere la sensibilità raggiunta e la necessità della collaborazione tra sistema scolastico e società civile: “È appena superfluo sottolineare che le necessarie e profonde modificazioni strutturali della scuola non sono per sé sufficienti a superare i rischi dell’emarginazione scolastica e sociale dei bambini handicappati. Occorre coinvolgere la società in questo impegno, giacché l’emarginazione sociale nasce oltre che da condizioni strutturali, da modelli culturali del costume” … [3]

Con legge 180/78, cambia radicalmente l’ottica dei servizi rivolti alle persone con malattia mentale, sostituendo quella custodialistico – autoritaria (nei manicomi) con un’ottica volta al prendersi cura della persona nel suo ambiente: si pone fine alla discriminazione nei confronti dei malati di mente rispetto agli altri ammalati. La legge 833/78, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, introduce concetti fondamentali anche per le persone con disabilità sostenendo la priorità della prevenzione, insieme con la cura e riabilitazione. Diverrà punto di riferimento per la riorganizzazione dei sevizi sanitari ma anche, in molte regioni, per i servizi sociali, in attesa di una specifica normativa che verrà emanata solo con la 328/2000. La normativa regionale, pertanto, diviene fondamentale nella costruzione dei servizi alle persone. Coniugando il DPR 616 con la Legge 833, le regioni   più attente alle problematiche delle persone con disabilità favoriscono la nascita di servizi di sostegno, anche tramite la valorizzazione di esperienze cooperative.

Nel 1992, è emanata la legge n°104 “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale ed i diritti delle persone handicappate” che pone al centro la persona, nelle proprie diversità e nel suo percorso di vita, richiedendo l’attuazione di politiche attive volte a cambiare l’ambiente per renderlo più accogliente e fruibile. Prevenzione, rimozione delle situazioni invalidanti, integrazione sociale, sono i principi cardine che dovranno trovare attuazione nei diversi ambiti considerati dalla normativa: nella scuola, nel lavoro, nella sanità, nei trasporti, nel tempo libero. Un aspetto rilevante di questa legge è il riconoscimento della condizione di gravità, di cui al comma 3, art. 3, secondo cui le persone riconosciute in tale condizione hanno diritto all’accesso ai servizi e alle prestazioni in modo prioritario. Si tratta di un concetto di gravità sociale, alla cui definizione concorrono anche professionalità sociali, e viene riconosciuta alle persone cui la minorazione ha prodotto una riduzione dell’autonomia personale, in ragione dell’età, che richieda un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera personale o in quella di relazione. Ad integrazione della legge quadro, la legge 162/1998 sollecita le Regioni a   introdurre programmi di aiuto alla persona, mediante piani personalizzati per i soggetti che ne facciano richiesta. Vita indipendente, autonomia, diventano obiettivo di vita di molte persone con disabilità e assumono un rilevante significato culturale e operativo per i servizi sociali e sanitari, impegno per le comunità locali. In questa direzione si colloca anche la legge 328/2000 (“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”) che all’art. 14 prevede la collaborazione dei servizi sociali e dei servizi sanitari alla realizzazione del progetto di vita della persona con disabilità. All’art 22, sono riconosciuti livelli essenziali le misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio di persone totalmente dipendenti o incapaci di compiere gli atti propri della vita quotidiana; gli interventi per la piena integrazione ai sensi dell’articolo 14; la realizzazione, per i soggetti in condizione di gravità, di centri socio-riabilitativi, servizi di comunità e di accoglienza per quelli privi di sostegno familiare, nonché l’erogazione di prestazioni per la sostituzione temporanea delle famiglie… nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alla spesa sociale. La realizzazione di questi livelli essenziali di prestazioni è affidata (nei limiti delle risorse citate) alla normativa regionale e all’azione amministrativa dei comuni. Sulla base della normativa regionale, i servizi possono essere gestiti direttamente dai comuni o loro forme associative, dalla cooperazione sociale in convenzione o in accreditamento. Di rilievo risulta essere la legge 68/99 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”. Cambia l’ottica della normativa preesistente, focalizzata sul collocamento obbligatorio, per aprirsi alla logica del collocamento mirato (il posto di lavoro adeguato a seconda delle caratteristiche della persona attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione), attraverso il SILD (Servizio Inserimento Lavorativo Disabili).

Di particolare interesse, anche la legge 6/2004 istitutiva dell’Amministrazione di sostegno, che apre ad una forma nuova di affiancamento e tutela delle persone che non sono in grado di provvedere autonomamente ai propri interessi. La Legge n. 67/2006, Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni, ha istituito una tutela giudiziaria che garantisce loro un sistema di accesso celere e agevolato nelle procedure. “Si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga. Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone”[4]. Alcuni cittadini, spesso sostenuti da associazioni di tutela, hanno avuto sentenze favorevoli alla luce di questa normativa, ancora non molto conosciuta e poco diffusa; sulla base di essa, alcuni giudici hanno imposto interventi correttivi a tutela delle persone. Con Legge n. 18 del 3 marzo 2009 l’Italia ha ratificato e reso esecutiva la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. Adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 13 dicembre 2006, la Convenzione intende promuovere e tutelare i diritti umani e le libertà fondamentali delle persone con disabilità, assicurandone il pieno ed equo godimento. La Convenzione è ispirata ad un nuovo approccio alla disabilità, che riconduce la condizione di disabile all’esistenza di barriere di diversa natura che ostacolano la sua partecipazione nella società in uguaglianza con gli altri ed identifica nel superamento di tali barriere l’obiettivo da raggiungere. L’accessibilità di tutto per tutti, l’adozione di accomodamenti ragionevoli, il rafforzamento del ruolo delle organizzazioni di rappresentanza e la diffusione di buone prassi sulla disabilità nel processo globale di sviluppo, sono le priorità su cui si fonda la Convenzione. Con essa avviene anche un cambiamento lessicale: da persona handicappata a “persona con disabilità” al fine di spostare l’accento dalle minorazioni alle abilità e alla sua completezza in rapporto all’ambiente in cui vive.

 

  • Nuovo modello culturale di intervento a sostegno delle persone con disabilità

L’evoluzione culturale è testimoniata sia dalla normativa che nel tempo ha ridefinito obiettivi e strategie operative, sia dai cambiamenti nei sistemi di classificazione (ICD-ICDH-ICF) che sono stati sinteticamente descritti sopra. Si è passati da un modello medico, che considerava la persona disabile solo per gli aspetti patologici, diagnostici e prognostici ad un modello psicosociale che ha assunto rilevanza sia in quanto ha avuto influenza sulla formazione dell’ICF, sia nella formulazione della Convenzione ONU dei Diritti delle Persone con Disabilità. Con il modello sociale[5] si sposta l’attenzione dalle limitazioni funzionali delle persone ai problemi causati dagli ambienti disabilitanti, da barriere e da culture che rendono disabili; si apre una prospettiva operativa nuova, anche per le professioni sociali ed educative, un tempo impegnate a svolgere funzioni di supporto agli specialisti dell’area sanitaria. Il nuovo modello chiama in causa professionalità e competenze diverse: ad esempio, le competenze dell’assistente sociale e dell’educatore dei servizi locali, come esperti del territorio, delle relazioni, dei contesti familiari e di prossimità. Sono chiamati a concorrere alla comprensione dei problemi specifici vissuti dalle persone con disabilità, avendo riguardo alla totalità dei fattori ambientali e culturali che rendono disabili. Fra i vari fattori disabilitanti sono compresi l’istruzione non accessibile, sistemi di comunicazione e informatici, ambienti di lavoro selettivi e competitivi, sussidi d’invalidità inadeguati, servizi sanitari e di solidarietà sociale discriminatori, la pochezza dei servizi di sostegno alle persone nella loro autonomia e indipendenza, trasporti inaccessibili, edifici pubblici ed alloggi con barriere, e l’immagine negativa trasmessa dai media, che svaluta le persone con disabilità. Essere professionisti ‘abilitanti’ (cioè capaci di introdurre processi abilitativi nei sistemi   delle persone con disabilità) richiede un’azione complessa, che riguarda le relazioni con esse, con le loro famiglie, con le associazioni di tutela, con le agenzie educative e del tempo libero, con gli organismi culturali e politici del territorio per favorire percorsi di autonomia, di sostegno, di valorizzazione. Gli operatori socio educativi hanno funzioni diverse a seconda del ciclo di vita in cui incontrano la persona con disabilità e la sua famiglia. Ci sono, infatti, momenti particolari, nella storia di queste famiglie, in cui le professioni di cura hanno rilievi diversi e competenze specifiche. Il momento traumatico per la coppia di genitori è certamente quello della nascita di un figlio con deficit o comunque il momento dell’insorgenza o evidenziazione della patologia che cambia la prospettiva di vita rispetto a quella che si erano prefigurata[6]. Oggi, la condizione di disabilità del figlio mette i genitori in una condizione di particolare difficoltà nel comprendere i propri compiti di cura. Ogni esperienza sarà diversa e dipenderà molto dal tipo di preparazione che i genitori hanno maturato rispetto a quell’evento. Dipenderà dalla loro cultura e dai significati che essi (e il loro contesto) danno alla disabilità. Così come molto dipenderà dalla possibilità che verrà data loro di conoscere e utilizzare i diversi supporti che la società (nelle diverse realtà locali) ha previsto. Altrettanto importanti saranno le modalità di relazione messe in atto dai professionisti nel farsi sentire compartecipi, presenti, esperti nel riconoscere le difficoltà e le potenzialità della persona con disabilità, dei suoi familiari e del loro contesto di vita, è molto importante che già nella prima fase le persone sentano la vicinanza di figure professionali diverse che si pongano in una dinamica relazionale forte, trasmettano il senso di una solidarietà, di un ‘esserci’. Le fasi di passaggio, se segnate da eccessiva incertezza, creano situazioni di forte ansia.

L’adolescenza[7], le scuole superiori e il successivo passaggio alla vita adulta costituiscono un periodo di grande preoccupazione per il giovane con disabilità e per i suoi genitori. Soprattutto se il deficit è grave o di natura psichica, si stenta a vedere una prospettiva di autonomia, di svincolo progressivo dai genitori. Molto spesso anche le terapie che lo hanno accompagnato per molti anni tendono a ridursi o concludersi, segnando la fine di un percorso ma anche il segno di un limite non più superabile. I genitori sentono sempre più la pressione di essere ‘genitori per sempre’ di un figlio che avrà bisogno di loro e da loro dipenderà per tutta la vita. Progressivamente entrerà in loro la preoccupazione del futuro: cosa farà una volta uscito dalla scuola, come occuperà il suo tempo, come potrà mantenere l’amicizia dei suoi compagni di scuola che vanno verso la costruzione di un loro futuro autonomo, cosa accadrà quando noi non ci saremo più, …? Sono domande forti che occorre conoscere e riconoscere, sulle quali confrontarsi come professionisti e con i servizi ma soprattutto con le stesse persone con disabilità interessate e con i loro genitori, per aprire ragioni di speranza e occasioni di vita alternative al richiudersi nella propria casa, con i propri genitori. In questa situazione, la valorizzazione della domiciliarità (principio di riferimento dell’azione delle politiche sociali, nei diversi ambiti di lavoro) vuol dire essenzialmente favorire positive relazioni con i genitori ma anche con il contesto: il lavoro, i servizi socio-sanitari, tempo libero, volontariato competente. Fare da ponte con queste realtà, accompagnare le persone a riconoscerne le potenzialità, a farne esperienza di vita. Il tema del lavoro, nel nostro Paese, è divenuto molto delicato per tutto il mondo giovanile: a maggior ragione per i giovani con disabilità. Quella che era una prospettiva di vita, di autonomia, di separazione dai genitori, si è molto ridotta. Nella fase di passaggio dalla adolescenza alla vita adulta, la collaborazione tra i diversi soggetti è importante per delineare un corretto orientamento del progetto di vita[8] e preparare il sistema dei servizi ad averne cura in un nuovo ciclo di vita.

  • L’età adulta: l’autodeterminazione, la vita indipendente

“L’inclusione non è una generica integrazione, e neppure un altrettanto generico servizio dedicato. Inclusione significa mettere ogni persona con disabilità in condizione di interagire con l’ambiente nel quale vive, di scegliere il proprio progetto di vita, di muoversi liberamente, in casa e fuori, di partecipare alla vita sociale, lavorativa, culturale, sportiva. Proprio come tutti. I servizi dovrebbero seriamente ripensare se stessi alla luce di questo faro … Ma la sensazione evidente a molti è che tanti servizi, nati per liberare energie e potenzialità delle persone con disabilità, nel tempo si siano ingessati, cristallizzati, chiusi in se stessi, magari realizzando cose magnifiche, ma senza raggiungere l’obiettivo dichiarato dell’uscita dal servizio per entrare nella normalità della vita. Penso ai centri diurni, ai servizi di terapia occupazionale, alla stessa assistenza domiciliare, per certi versi vissuta come un badantato ridotto all’osso. C’è sempre, sotto traccia, una visione sanitaria dell’approccio al servizio per le disabilità, che è in netto contrasto con la definizione fornita dalla Convenzione, che insiste giustamente sul concetto di relazione con l’ambiente, con gli ostacoli, con il contesto sociale, culturale ed economico“. (Franco Bompressi, Includere è più di integrare, Vita Magazine, 8 novembre 2013)

Il concetto di autodeterminazione è diverso da quello di autosufficienza: il primo si riferisce alla capacità di giudizio, di espressione della propria volontà, di governo delle proprie competenze decisionali ed è proprio di tutte le persone che hanno capacità di agire. Autosufficienza si riferisce, invece, alla competenza personale di realizzazione delle attività di vita quotidiana, la cui limitazione in grado elevato comporta la condizione di non autosufficienza. E’ evidente che possiamo avere persone autonome ma non autosufficienti, che abbisognano, quindi, di una pluralità di aiuti, di assistenza e di ausili. Si tratta per lo più di persone con disabilità fisiche, anche gravi, che hanno la competenza di esprimere la propria volontà e i propri desideri nonché di elaborare progetti di cura e di vita indipendente che verranno poi realizzati con l’aiuto di familiari o di altre persone, scelti da loro. Possono però esserci anche persone che hanno buone competenze motorie e anche buone abilità di governo di sé nelle azioni di vita quotidiana, ma che presentano gravi limiti dell’autonomia: si tratta per lo più di persone con gravi problemi psichici, cognitivi o di comportamento che inficiano la loro autonomia di giudizio, pur in presenza di una relativa capacità motoria e operativa.

Gli operatori che lavorano nell’area della disabilità, si confrontano con almeno altri due temi delicati: la disabilità grave acquisita in età adulta, l’invecchiamento delle persone con disabilità. Si tratta di aspetti relativamente nuovi, resi possibili da migliori sistemi di cura delle persone che subiscono gravi traumi o patologie invalidanti. La sopravvivenza di persone che hanno subito ictus, infarti, tumori cerebrali, incidenti stradali gravemente invalidanti è oggi molto alta.

Anche l’anzianità e la vecchiaia sono una esperienza relativamente recente delle persone con disabilità. Oggi è sempre più frequente incontrare persone con sindrome di Down ultra sessantacinquenni. E così è permolte persone con diverse patologie. Uno dei nuovi problemi dei servizi per disabili è quello di adeguare strutture e strumenti operativi a sostegno di progetti per persone che sono invecchiate nei servizi e nelle loro case, con genitori che nel frattempo sono divenuti grandi vecchi. E’ per questo che oggi si parla sempre più del ‘Dopo di noi’. Un tempo, era raro che i figli disabili sopravvivessero ai loro genitori. Occorre aiutare le persone (disabili e loro familiari) a pensare per tempo al loro futuro, ma anche i servizi e i sistemi di aiuto presenti nella comunità a farsene carico.

L’esperienza informativa e formativa sulla legge 112/2016 che stiamo facendo nei diversi incontri in giro per la provincia, in questo periodo, mi sembra molto interessante e speriamo utile.

Di questa normativa vorrei sottolineare alcuni aspetti culturali:

Al di là delle singole iniziative che trovano valorizzazione dalla nuova normativa e che fanno parte della nostra storia di servizi alle persone (Scuola di autonomia, Case ritrovate), mi preme sottolineare alcuni punti di riferimento culturale che la L. 112/2016 ci sollecita:

  • considerare la persona nella sua interezza, e nel suo ‘intorno’
  • la dimensione – casa come luogo di relazioni, affetti e collegamento con il contesto di vita delle persone
  • autonomia e indipendenza come valore anche nelle condizioni di gravità
  • personalizzazione degli interventi: la persona al centro, della nostra attenzione e del progetto di vita
  • concorso di più soggetti a sostenere processi di inclusione e vita adulta

 

Bibliografia

AA.W. (2002), Figli per sempre, Carocci, Roma.

Farinella A. (2015), Siblings, Essere fratelli di ragazzi con disabilità, Erikson, Trento

Furlotti R, Malerba A, (2000), Quale integrazione scolastica? Il sostegno socio -assistenziale ad alunni disabili nel Comune di Parma, Franco Angeli, Milano.

lanes D. (2014), La diagnosi funzionale secondo l’ICF, Erikson, Trento

Paolini Mario (2009)1 Chi sei tu per me? Persone con disabilità e operatori nel quotidiano, Erikson, Trento

Pavone M. (a cura di), Famiglia e progetto di vita. Crescere un figlio disabile dalla nascita alla vita adulta. Erickson, Trento, 2009

Pergolesi S. (a cura di), (2002), A casa con sostegno. Un progetto per le famiglie di bambini, bambine e adolescenti con deficit, Franco Angeli, Milano.

Savarese G. (2009), lo e il mio amico disabile. Rappresentazioni sull’amicizia tra adolescenti. Franco Angeli, Milano.

Sorrentino Anna M. (2006), Figli disabili. La famiglia di fronte all’handicap. Cortina Raffaello, Milano.

Stefanini Pietro (2016 ), L’assistente sociale e le persone con disabilità, in (a cura di Teresa Bertotti) Il servizio sociale in comune. (Maggioli Editore)

Stefanini Pietro, Servizio sociale e persone con disabilità, in (a cura di Campanini A.) I settori di intervento del Servizio Sociale (Carocci, Roma, 2017)

 

Sitografia essenziale

www.anffas.net – www.angsaonlus.org   – www.coordown.ìt – www.disabili.com- www.fishonlus.it-

www.grusol.it -www.handvlex.org – www.lombardiasocial e.it   www.superabile.it

In alcuni di questi siti è possibile iscriversi ad   una mail list per tenersi aggiornati sia sulle normative sia su esperienze significative.

 

[1] Associazione sesto senso. Siena: www.chiamatemipernome.it

[2] Ianes (2014)

[3] Ministero della Pubblica istruzione (1975): Relazione conclusiva della Commissione Fa/cucci concernente i problemi scolastici degli alunni handicappati

[4] Legge 67/2006 art. 2 commi 2 e 3

[5] Il modello sociale della disabilità è stato ideato da Mike Oliver nel 1981

[6] Pergolesi (2002)

[7] Savarese (2009)

[8] Pavone (2009)